Sul desiderio. Passando da Dawson’s Creek alle stelle

Tralasciando com’è che da un «Cosa vediamo stasera di non impegnativo?» «Una serie tv?» «Ok»«Una di quelle vecchie, dei nostri tempi?» «Okay!» mi ritrovo a guardare Dawson’s Creek a quarant’anni e senza neanche un figlio adolescente come scusa, vorrei soffermarmi su un punto che mi ha acceso, al quinto episodio.

La mamma di Dawson ha una tresca con il collega di lavoro… nulla di eccezionale, se non fosse che durante la confessione, quella vera, concitata che arriva dopo un po’ di travaglio interiore, alla domanda del marito «Perché mi hai tradito?», lei risponde: «Ti ho tradito perché la mia vita era perfetta: un marito perfetto, un figlio perfetto, un lavoro perfetto, che amo. Avevo bisogno di desiderare qualcosa». È qui che mi accendo come una lampadina, al contatto con questa consapevolezza che può arrivare solo quando hai l’età dei genitori dei protagonisti e non più dei protagonisti e che mi lascia senza fiato: noi non vogliamo una vita perfetta, risolta, saturata, noi vogliamo una vita in cui sentirci desideranti, pieni sì, ma di desiderio, cioè di fuoco dentro.Ecco perché abbiamo bisogno di rimescolare le carte di tanto in tanto, di rilanciare progetti, di spostare il nostro termine ultimo verso l’alto (nel senso di elevato), di avere una stella (“desiderio” dal latino contiene “stella”) un orizzonte a cui mirare – nel migliore dei casi un Bene con la B maiuscola che racchiuda tutti i beni con la b minuscola -.

Non è forse vero che non appena raggiunto un traguardo (un diploma, un matrimonio, un figlio, una creazione artistica) ci chiediamo: «E adesso?», che è come dire: «Che ne sarà di me/del mio desiderio/desiderare?». Non è forse vero che la vita è una continua danza tra due termini dell’esperienza: fame e sazietà, attesa e piacere, viaggio e meta, avventura e conforto? Che senza l’uno non avrebbe senso l’altro? Certo che poi per rimescolare le carte bisogna essere buoni mazzieri, bisogna sapere cosa e dove rilanciare, non senza saggezza e una certa armonia di movimento. La signora Leery per esempio si inguaia non poco, come si vedrà in seguito, forse perché nel suo caso il fine è buono, ma non il mezzo.

A conclusione mi vengono in mente due spunti:

1- Dei versi di una sconcertante bellezza di cui ahimè ho un ricordo vago per cui vado a braccio, che dicono più o meno così: ma se anche alla fine e dopo tanto anelare giungessimo a Dio, non cominceremmo, da lassù, a sentire la mancanza di quella nostalgia di Dio e non vorremmo forse tornare a essere di quaggiù?

2- E François Jullien, che in un bellissimo anche se difficilissimo libricino scrive che la presenza vuole l’assenza e la prossimità la distanza. Nel rapporto di coppia una presenza continua raffredda e finisce per stancare, solo una presenza alternata e differita dall’assenza torna ad essere evento, a farci chiudere gli occhi, facendoci desideranti. Altrimenti ciò che c’è si disfa e non risalta più, fosse anche la cosa più bella del mondo.

Cito: «Cosa si può immaginare di più stupefacente ed affascinante dello spettacolo del cielo, che abbiamo sempre davanti agli occhi con i suoi astri infiniti, con la luce del sole che illumina ogni cosa con il suo splendore? Se apparisse per la prima volta ai mortali, se sorgesse all’improvviso davanti al loro sguardo, cosa mai si potrebbe indicare di più meraviglioso? […] Ebbene, nella misura in cui un tale spettacolo ci si para davanti tutti i giorni, monotono, noi non lo vediamo più; in realtà non l’abbiamo mai veramente visto. La presenza viene cancellata dall’essere sempre presente»

P.s: ora la lampadina la spengo ma accendo la tv, che questo Dawson’s Creek non è poi malaccio e ormai voglio vedere come va a finire.

BIBLIOGRAFIA:

  • Jullien F. (2016) Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima. Ed. Mimesis

Giorgia Fantinuoli

Psicologa Psicoterapeuta

giorgia.fantinuoli@gmail.com

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