Non faccio abbastanza

Quanto spesso ci sorprendiamo con il pensiero che risuona nella testa “Non faccio abbastanza”, a cui il più delle volte segue un senso di frustrazione, tristezza o insoddisfazione? Ma è vero che non facciamo abbastanza nel momento in cui lo pensiamo? E se la risposta è no, da dove viene questo pensiero che ci fa credere di dover fare ancora, ancora e sempre di più?

Ci succede molto spesso di credere di non essere abbastanza bravi sul lavoro, di non portare a casa i risultati sperati, di non prendere bei voti a scuola, di non avere quello che ha l’amico, di non aver fatto quella certa cosa che ha già fatto l’amica, la cugina, il fratello e via dicendo. Succede a te, a me, e succede anche agli altri più di quanto pensiamo. Ci sottoponiamo a confronti con il resto del mondo con cui ci sminuiamo con frasi del tipo “Lui ce l’ha fatta, io no”, “Lei è brava, io no”, “Loro ce l’hanno io no”. La presenza ormai costante sui social in questo non aiuta, perché se da una parte ci inserisce in una rete in cui possiamo condividere e sentire la presenza degli altri, dall’altra ci espone a facili e superficiali confronti, da cui, specialmente se siamo sensibili o tendenti all’autosvalutazione, è facile uscirne con l’atteggiamento del tipo: “Io faccio niente, gli altri san fare tutto, io valgo nulla, gli altri sì che hanno successo”, tanto per estremizzare. Questi pensieri non solo ci fanno male, ma ci portano anche fuori strada. Io credo infatti che quando ci cogliamo con le mani nel sacco del non faccio abbastanza è perché stiamo guardando nella direzione sbagliata. Quello che vorrei dire è che questa affermazione il più delle volte non corrisponde alla verità, ma si tratta di un’illusione, di uno scherzo della mente abitudinaria che ci trae in inganno.

C’è un modo per rendercene conto e vorrei condividerlo qui.

Quando mi prefiggo un obiettivo è come se formulassi dentro di me il pensiero “Quando avrò comprato la macchina/ mi laureerò/ sarò diventata/o mamma/papà/avrò scritto quel libro, ecc… allora sarò felice”. Peccato che poi una volta raggiunto, l’entusiasmo si esaurisce rapidamente per lasciare spazio a un nuovo “quando avrò/diventerò, allora sì che sarò felice” e via così, tutto da capo, in un circuito senza fine in cui ciò che abbiamo raggiunto improvvisamente finisce sullo sfondo per lasciare comparire qualcosa di nuovo all’orizzonte. Qui non voglio dire che desiderare e ambire di per sé sia un male, di fatto non lo è, ma lo diventa quando il senso di frustrazione per il mancato raggiungimento diventa una costante, una presenza cronica nella nostra vita. Quando cioè l’insoddisfazione prende il comando per scomparire soltanto qualche momento dopo aver raggiunto l’obiettivo e poi ricomparire, più prepotente che mai. Se ci facciamo caso, l’idea che quella cosa ci renderà felici, è illusoria e ce ne rendiamo conto proprio dopo averla raggiunta.

Ma perché tendiamo a questo circolo vizioso e a credere di non fare mai a sufficienza?

Io credo che questo atteggiamento in parte dipenda dalle nostre esperienze di crescita, da come i nostri genitori o educatori si sono rapportati a noi, a quanto spesso ci hanno fatto pesare sbagli e mancanze invece di sottolineare e valorizzare il nostro modo di essere, le nostre peculiarità, compresi i nostri sbagli e le nostre mancanze. Oltre che da cosa la società ci inculca sia importante: la performance, il risultato, la carriera, l’omologazione, che non dà spazio alla creatività, ecc.

Credo però che abbia anche a che fare con una tendenza più generale, tipicamente umana, che abbiamo di posare più facilmente l’occhio su quello che manca rispetto a quello che c’è già.

La conseguenza di questo atteggiamento è che tendiamo a vivere in un costante senso di insoddisfazione e negatività.

Come fare allora quando ci accorgiamo di entrare in questo vortice del non faccio abbastanza?

C’è un piccolo stratagemma che ho sperimentato e che può dare beneficio. Una volta che mi rendo conto di essere persa nel pensiero ossessivo di tutto quello che mi manca (questo è già un buon punto di partenza) ho imparato a fermarmi, a sentire il malessere che provo e ad accorgermi che sto guardando nella direzione sbagliata. Mi prendo così intenzionalmente il tempo e la cura di rivolgere lo sguardo a tutto quello che già c’è, per esempio visualizzando il passato, recente e lontano, come se sfogliassi l’album di foto di famiglia o il curriculum vitae (se abbiamo l’album tanto meglio farlo concretamente). Ripercorro così gli eventi significativi della mia vita, le tappe che ho attraversato, i passaggi della vita, i traguardi raggiunti e provo ad ascoltare che effetto mi fa. È sorprendente ogni volta notare la ricchezza di quello che c’è e di quanto ogni volta me ne dimentichi. Ho usato la parola curriculum vitae perché recentemente mi è capitato di dover aggiornare il mio e nel rileggerlo tutto d’un fiato mi sono sorpresa a pensare: “Cavolo, davvero io ho fatto tutte queste cose?”. Provate voi stessi a rileggere il vostro ad alta voce, lentamente, ripercorrendo mentalmente tutte le esperienze fatte fino a quel momento. E’ un po’ come osservarsi da fuori, con un occhio più oggettivo e realistico, si ha quasi l’impressione di vedere la vita di qualcun altro, mentre invece è proprio la nostra.

Questo significa per me porre lo sguardo nella direzione giusta.

Mi capita di proporre questo esercizio anche in terapia, quando nei pazienti subentra lo scoraggiamento o la modalità di pensiero negativa del non sono/non faccio abbastanza. Allora propongo di guardare tutta la strada che hanno fatto, nel loro percorso di crescita, per arrivare dove sono ora. È un po’ come dire “Sì ora ti senti così, ma ti ricordi come stavi quando hai iniziato? Quanti passi hai fatto?”. Questo ogni volta ridesta dal torpore del pensiero negativo e risveglia alla verità.

Quando ci sentiamo sopraffatti dall’insoddisfazione possiamo dunque cambiare noi qualcosa, anziché aspettare che qualcosa sopraggiunga dall’esterno, invertendo la direzione della rotta.

Mi capita allora di ripercorrere i sentieri della mia vita: i posti che ho visitato, le persone che ho incontrato e che mi sono rimaste nel cuore, le esperienze che mi hanno fatto diventare una persona migliore, i libri che mi hanno illuminato, i gesti gentili che ho ricevuto e che ho io stessa rivolto e che hanno fatto stare bene qualcuno. Farlo ci sorprenderà, ci rafforzerà e darà valore a ciò che siamo. E chissà che forse ci accorgeremo anche di essere capaci di stare bene senza tante di quelle cose superflue con cui riempiamo le giornate e attraverso le quali ci illudiamo di stare meglio. E chissà che pure non cominceremo ad assaporare la mancanza, che è quello stato d’animo che in fondo ci permette di non dare troppo per scontate le cose che abbiamo sotto gli occhi e di gioirne.

Quando un giorno ho sentito dire a un maestro di meditazione che vivere con meno progetti fa bene al cuore, subito sono rimasta perplessa e ho pensato: “Ma come, come si può vivere senza progetti?”, ma poi con il tempo ho capito cosa volesse intendere: ciò che genuinamente ci guida nella vita non sono i progetti (avere/ possedere/diventare questo o quello), ma una meta più grande, un faro, una direzione, e tra le due c’è una bella differenza. La meta più grande possiamo chiamarla in diversi modi, ma ha a che fare con i valori per noi più importanti, con il seguire il nostro Sé più autentico. Ecco che allora quando facciamo un pezzo in più nel nostro percorso di vita, questo si rivela per quello che è: non un risultato, una performance da aggiungere alla nostra carriera, non una cosa da spuntare nella lista dei desideri, non un oggetto da accumulare insieme a tanti altri, ma una tappa che sancisce la riduzione della distanza tra me e questo Faro, tra me e il mio Vero Sé o ciò che sento di dover realizzare nella vita.

In definitiva, il solo vero viaggio da compiere per un’autentica felicità.

Concludo riportando una fiaba, che meravigliosamente racchiude questo messaggio:

“Un bambino che vive in cima a una collina vede ogni sera, sulla cima di un’altra collina di fronte alla sua, una casa con i vetri tutti d’oro e pensa: “Quando sarò più grande, farò fagotto, partirò il mattino presto e forse verso sera arriverò alla casa dai vetri d’oro e allora sì… Ma adesso sono troppo gracile per quel lungo cammino, aspetterò di crescere”. E passano gli anni e il bambino non smette mai di adorare da lontano la casa dai vetri d’oro e un bel giorno sente di essere abbastanza grande da poter partire. E cammina, cammina, cammina, suda sette camicie, le suole delle sue scarpe si fanno sottili come neve, la sua giacchetta si strappa, ma ecco che alle prime ombre della sera raggiunge la casa e… è una casa come tutte le altre, i vetri perfettamente trasparenti e incolori. Il bambino esausto e disperato sta per lasciarsi cadere a terra, quando, come per caso, si gira verso la sua casa lontana: i vetri sono tutti d’oro”.

(Da Il silenzio è cosa viva, C.L.Candiani)

Che la vita ci porti ad accorgerci della casa dai vetri d’oro che siamo già.

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