“Chi ero io tre mesi fa?
La risposta è semplice. Quella che ero stata negli ultimi vent’anni. Esattamente la metà della mia vita.
Voglio chiarire subito che per me è un tormento parlare di me stessa, l’ho già detto. E ancor più erigermi a protagonista di una storia. Ma ho promesso di fare uno sforzo. Ci riprovo.
Chi ero io tre mesi fa?
Una donna di quarant’anni che cammina stordita lungo i marciapiedi troppo stretti del centro di Madrid durante quella che, a quanto si dice, è stata l’estate più calda del secolo. Una donna che, qualche anno prima, non sarebbe mai uscita di casa struccata, non per vanità, ma perché in fondo non le era mai piaciuta la propria faccia, e che adesso non si ricorda quando è stata l’ultima volta che si è lavata i capelli. Una che si trascina per le corsie di un nuovo supermercato che le appare come un labirinto inespugnabile, perché i latticini non sono accanto alla cassa, e la frutta e la verdura non hanno la solita forma, ma sono tagliate, sbucciate e disposte in vassoietti, come malefici cioccolatini.
[…] Mi chiamo Marina. E di tutte le certezze di Lorena ce n’era una inoppugnabile: io non ero mai stata sola. Ero sempre stata con qualcuno. Ero sempre stata con lui. Anzi, ora che mi decido a scrivere questa storia, preferisco dire “con te” […] Al momento so solo che inizio questa traversata senza autorizzazione, quando io non ho neanche la patente di guida della mia stessa vita. Questa è la verità. Ho sempre occupato il posto del copilota. Forse è questo il motivo per cui ho disimparato come si prendevano le decisioni o forse non ho mai saputo come si decideva quale rotta seguire. Perché la rotta la decidevi tu. E io ero il tuo zaino. E adesso tu non ci sei più e questa barca non ha più un capitano, e neanch’io”
Ecco l’inizio dello sconvolgimento di Marina, la protagonista di Donne che comprano fiori. Sono stata catturata immediatamente dalle prime righe di questo libro perché descrivono bene cosa si prova quando la vita subisce uno stravolgimento. Un evento esterno come la fine di una relazione, la perdita di qualcosa di vitale, perturba l’ esistenza fino ad allora tranquilla (o apparentemente tranquilla) e si traduce nel disorientamento totale. È come se un filo invisibile si spezzasse e tu ti ritrovassi senza più un punto saldo a cui ancorarti, sola, in mare aperto e senza vedere nulla.
La vita è così, prima o poi ci mette davanti a questa esperienza e ci fa capire (all’inizio è una constatazione amara, disperante) che un punto di riferimento esterno non basta, non è sufficiente per attraversare il viaggio dell’esistenza. Possiamo tirare avanti per un certo periodo sì, ma poi è necessario ancorarci a qualcosa di più vicino, di più saldo, di più radicato in noi. Questo tipo di sconvolgimento, che segna l’inizio di una crisi, se da una parte è doloroso, dall’altra può diventare l’occasione per cominciare ad assoldare il nostro pilota interno e a stabilizzarlo dentro di noi.
Per Marina questo diventa un compito, o meglio una promessa fatta a se stessa, che comporterà una grossa fatica, quella di affrontare i propri fantasmi interni, che non sono altro che le nostre paure più profonde: la paura di fallire, di non farcela e la paura della solitudine e dell’ignoto. Sono queste paure infatti a bloccare il nostro percorso evolutivo. Per questo viviamo per lo più avviluppati nelle nostre rigidità e limitazioni, appoggiandoci a fittizi sostegni esterni che ci consentono, per un certo periodo di tempo, illusoriamente, di non sentirle. Sviluppare ciò che siamo (uscire dall’avviluppamento) richiede invece l’aprirsi alle paure, guardarle in faccia e affrontarle.
“Si va in scena senza trucco e senza sapere la parte. E io avevo sempre avuto il terrore del palcoscenico. Forse era questo il motivo per cui non avevo preso mai molte decisioni. Per questo preferivo che le prendessi tu, mentre io ero la tua comparsa. Era molto più facile affidare a un altro il ruolo da protagonista della mia vita. Per non attirare troppo l’attenzione casomai avessi commesso un errore in uno dei miei monologhi, per non farmi notare dalla critica: toccava a chi aveva una parte importante cavarmi di impaccio. Non si trattava più di essere la protagonista, ma un personaggio secondario nello spettacolo della mia stessa vita”
Facciamo un po’ tutti così, ci muoviamo in “modalità risparmio”, finché non arriva la vita a sbatterci in faccia che siamo su un equilibrio precario, che abbiamo vissuto solo per metà la nostra vita e che occorre fare un passo in più, un salto, per prendere in mano tutto il pacchetto completo, dolori e ferite comprese. Dobbiamo cioè passare dal ruolo di copilota a quello di pilota, che vuol dire fare la fatica di caricarci sulle spalle il nostro zaino, ma anche cominciare a toccare un senso di maggiore potere. Una volta che saliamo su, infatti, cominciamo a percepire una forza, la sensazione che stiamo andando dove desideriamo e non ci accontentiamo di arrivare solo fino a un certo punto.
Questo romanzo è anche un inno alla solidarietà femminile, alla capacità femminile di accogliere e “comprendere” le tortuosità e gli ostacoli del percorso, anche quelli di chi ci sta vicino. Di fatto, senza compagni di viaggio, da soli, non ce la caviamo. Qui sono cinque donne che si ritrovano in un negozio di fiori, come in un rituale, a confessarsi le sfide, le fragilità e le ferite con cui ognuna deve fare i conti. E ognuna cercherà di infondere nell’altra il coraggio di cambiare direzione. Eh già, perché quando la vita ci stra-volge ci obbliga a guardare verso un’altra direzione, che altrimenti con grande probabilità non prenderemmo neanche in considerazione. La direzione del nostro bene è sempre contro-corrente. Per me ciò ha significato e significa volgere lo sguardo dall’esterno verso l’interno, dentro me stessa.
Mi piace trovare una connessione con le cose e sentire un senso del tutto, come a dire “Ecco, guarda come a un certo punto tutto torna! Tutto è collegato da qualcosa!”, come se ci fosse un filo invisibile ma presente. Non credo infatti sia un caso che questo libro mi sia stato consigliato da una donna, che mi ha aiutato moltissimo proprio in un momento travagliato della mia vita e a cui sono riconoscente. Io quarantenne, lei pure prima di me, proprio come Marina. Questo libro è il dono e la testimonianza di questo incontro, di questo filo invisibile che ci unisce. Chissà, magari proprio ora un’altra donna che legge queste righe si sta inoltrando o si è già inoltrata dentro gli stessi sentieri, nella sua personale avventura.
In questo romanzo sempre una figura femminile, l’autrice, testimonia che c’è una navigazione da fare, un viaggio da compiere e che, dulcis in fundo, c’è anche una meta. Il faro su cui orientarsi è il nostro centro, un ritorno a casa, sempre, al centro di noi stessi.
Buona lettura.
@giorgiafantinuoli