L’altra sera ho rivisto per la seconda volta il film d’animazione Coco della Pixar del 2017 e ho fatto una riflessione che mi piacerebbe condividere. Siamo a novembre ed è da poco passato il Giorno dei Morti perciò l’argomento è a tema.
La storia, ambientata in Messico, è incentrata sull’importanza di essere ricordati dai propri cari quando si è morti. In occasione del Día de Muertos (il nostro 2 novembre), il giorno in cui vengono celebrati i defunti, i vivi possono ricongiungersi con i propri antenati. Questi devono però attraversare una “dogana”, che permetterà loro di transitare nel regno dei vivi solo a patto di trovarsi nell’ “elenco dei ricordati” nella terra dell’aldiquà. È necessario cioè che almeno uno dei propri cari ne tenga viva la memoria e ne esponga la foto nella propria casa, a testimonianza di tale memoria. Se il defunto non è più ricordato viene rimandato indietro e il destino che lo aspetta è quello di scomparire per sempre, anche dal regno dei morti. A ragione di ciò il protagonista dodicenne Miguel, si ritroverà a fare in modo che la bisnonna Coco, ormai prossima alla morte, non smetta di tenere vivo il ricordo del padre morto quando era piccola, il quale sta a poco a poco scomparendo.
Una fine triste per chi non è nei pensieri di nessuno.
Proprio questo aspetto commovente del film mi ha fatto pensare a quanto sia fondamentale, anzi vitale, essere presenti nella mente di qualcuno, ma non quando siamo nell’aldilà, come racconta Coco, quanto proprio nell’aldiquà. Il film mi ha ricordato cioè che una delle paure più grandi che abbiamo è quella di non essere nella mente degli altri. Che poi non è altro che la paura della solitudine, del vuoto d’amore. Non si spiegherebbe altrimenti il successo dei social, il tempo che impieghiamo a condividere, per fare presente agli amici cosa stiamo facendo e quanta importanza diamo ai “Like”, alle “visualizzazioni”. E quanto ci possiamo rimanere male se l’amico o la persona a cui teniamo non ci rivolge la sua attenzione, il suo pensiero, appunto. È quello che succede oggi nell’era tecnologica, ma credo renda bene l’idea di quanto come esseri umani abbiamo bisogno di non essere dimenticati, di sapere che l’altro ci custodisce nella sua mente e che anche quando siamo distanti siamo in qualche modo connessi.
Si tratta di un’esigenza antica, primaria, basti pensare a quanti disturbi psicologici insorgano quando un bambino o un ragazzo sente di non essere presente nella mente dei propri genitori, perché questi sono troppo presi dalle loro incombenze o semplicemente dai propri egoismi. Anche nel mio lavoro per esempio, so bene quanto i pazienti abbiano bisogno di sentire che sono presenti nei pensieri del terapeuta anche oltre il tempo della seduta. Ed è anche un’esigenza che sembra andare oltre la nostra esistenza su questa terra, e questo il film lo fa vedere bene, infatti proviamo il desiderio di lasciare qualcosa di noi anche dopo la morte, in qualche forma, che sia un figlio, un libro che abbiamo scritto, una musica che abbiamo composto, per non scomparire dalla mente delle persone, mai. Come se desiderassimo essere presenti nei pensieri degli altri per l’eternità.
Allora mi sono detta:
E se a farci così paura non fosse tanto la paura di morire inteso come scomparire dal mondo, ma piuttosto la paura di scomparire dalla mente degli altri?
Questo pensiero scuote e cambia un po’ la prospettiva delle cose, forse anche il fine, il senso che diamo alla nostra esistenza. Se ciò che desideriamo di più al mondo è essere presenti nella mente del nostro amato, dei nostri amici, genitori o di chi stimiamo, intendo essere presenti amorevolmente in loro, allora forse le priorità cambiano, perché cambiano i termini della domanda sul nostro stare al mondo.
Per cosa esistiamo cioè, se non per rendere reale e viva questa presenza, questa connessione, se non per il bene che possiamo dare e che possiamo ricevere? E se è così, constatare questo, come cambia il nostro agire nel mondo?
©giorgiafantinuoli